Montagne: profili nascosti

Fotografie di Chiara Birsa e Pietro Ostano

Biblioteca di Città Studi, 14 marzo – 30 aprile 2016

Fotografia di Pietro Ostano

La forza motrice di questi due giovani fotografi è dettata da una ricerca silenziosa e costante della bellezza nella sua forma più pura; la montagna ne diventa l’emblema per eccezione.

Cime frastagliate, pendii illuminati dal caldo sole o da lune piene, cieli stellati e silenzi colmi di vita, luoghi incontaminati da luci e rumori della città; ritratto, quest’ultima, di una società frenetica e dalla quale cercar fuga.

Un’essenza mistica respirata a pieni polmoni e, momentaneamente alleggerita da problemi e affanni della civiltà, esente da scomodi compromessi.

Questo è per loro la montagna: ricerca introspettiva, scoperta di se stessi, contatto con la natura e con quel “Io” che ognuno cerca, a modo suo.

Interpretazione estetica del paesaggio montano, studio di luce e composizione si fondono in modo olistico con messaggi subliminali ed evocativi, richiamando l’osservatore ad agire e affrontare le proprie cime interiori.

Stare dietro all’obiettivo è per entrambi un modo per osservare la realtà da una prospettiva personale e unica, con la speranza di emozionare coloro che guarderanno quelle immagini in futuro.

La mostra dialoga con la proposta di lettura “Letture e visioni d’alta quota” dedicata alla montagna.

Chiara Birsa (Biella, 1991)

Quello che mi ha sempre affascinato della fotografia è l’attesa, l’attesa di scoprire cosa rimanga di quel silenzioso “click” dell’otturatore che chiudendosi cattura la vita al di là dell’obbiettivo. Fin da piccola osservavo incuriosita mio padre maneggiare con cura la sua Olympus mentre ne cambiava ottiche e rullino preparandosi allo scatto e chiedevo spiegazioni su come funzionasse e cosa fosse necessario fare per poter realizzare una bella fotografia. Allora le attese erano più lunghe: era necessario aspettare settimane intere affinché il rullino fosse completo per portarlo a sviluppare. Ricordo ancora la felicità nel vederlo rientrare a casa con in mano album colmi di ricordi di giorni lontani. Con il passare degli anni crebbe in me la voglia di stare dall’altra parte dell’obiettivo: chiesi quindi in regalo la mia prima macchina fotografica: cominciò tutto da quella piccola Canon rossa. Realizzai i primi maldestri scatti emozionandomi ad ogni click nonostante i risultati non fossero dei migliori, ma non mi importava, finalmente riuscivo a far vedere il mio punto di vista e mostrare agli altri il mio piccolo mondo custodito tra le montagne. La tecnica migliorava di scatto in scatto ma non mi bastava, volevo di più: volevo una macchina che mi permettesse di controllare ogni singolo dettaglio. Arrivò Natale e con esso il regalo perfetto: la prima reflex. Negli anni successivi incominciai a rendermi conto che al di là delle splendide montagne biellesi c’è un mondo intero da scoprire ed è così che intrapresi i miei primi viaggi portando con me la mia Canon. Tutto il lavoro fatto fino ad allora iniziò a dare i suoi frutti: i miei scatti mi soddisfacevano sempre più e decisi di partecipare ad alcuni concorsi. Rientrai tra i vincitori di “ItsGreatOutThere” contest europeo volto a promuovere l’attività all’aria aperta e iniziai a rendermi conto che le mie foto venivano apprezzate sempre più. Spinta da una passione alimentata dalla bellezza che scopro in tutto quel che mi circonda, non posso che continuare a coltivare la fotografia, che resta per me un modo di esprimermi e di far vedere la realtà attraverso un diverso punto di vista, nuovo e personale, l’unico modo in cui riesca ad esprimere le mie emozioni e a raccontare la mia vita.

Pietro Ostano (Jwaneng, 1986)

La mia vita ha inizio a 7.992 chilometri di distanza, nel tropico del Capricorno; a sud di esso il sole non raggiunge mai lo zenith. Sono gli inizi di Aprile e dell’inverno australe, e in quell’occasione non piango. Padre Italiano e madre Sudafricana di origine Boera, cresco parlando Italiano, Afrikaans e Inglese, la lingua coloniale.
L’educazione anglosassone primaria comincia un anno in anticipo, così a cinque anni sono iscritto in una scuola internazionale e soppianto l’italiano, relegandolo al parlato famigliare e ai mesi di Luglio e Agosto che trascorro in Valle Cervo, la terra nativa di mio padre. Ho la grande fortuna di trascorrere l’infanzia viaggiando in macchina tra Botswana, Namibia e Sudafrica visitando i luoghi che mi permetteranno in seguito di sviluppare i primi sentimenti d’amore per la Natura.
Di quei giorni lontani ricordo il sole levarsi enorme e tremolante all’orizzonte, custode di quelle terra rossa e arida, antica più delle origini dell’umanità. Ricordo l’odore della pioggia sulla terra ocra e rovente, le onde enormi dell’oceano indiano e i chilometri di strada sterrata senza autoradio; il canto incessante delle tortore dal collare e i berci ancestrali della Savana al calare delle tenebre.
Che sia con la macchina fotografica o con la cinepresa, i miei genitori sono sempre presenti nel catturare momenti speciali dell’infanzia mia e di mia sorella e a questa loro attenzione devo gran parte della mia futura inclinazione alla fotografia. Il 1995 segna però il termine della mia infanzia africana e l’inizio di quella italiana.
Nuovo continente, nuovo fuso orario, nuove stagioni, lingua, usi e costumi, amici; nel giro di un mese vengo eradicato da tutto ciò che fino a quel momento conosco, senza transizione o soluzione di continuità.
Gli orari prolungati delle scuole italiane e l’agonismo sportivo distolgono la mia attenzione da tutto ciò che è creativo e richieda contemplazione; semplicemente sviluppo altre doti con dedizione e sacrificio. Appassionato di filmati amatoriali, al complimento del mio diciottesimo compleanno mio padre mi regala una macchina da ripresa che utilizzo per creare ricordi con amici, totalmente esule da qualsivoglia ricerca del bello. Nel 2006 mio padre acquista una Nikon D80, molto avanzata per quel periodo, ma che non gli è possibile sfruttare e dunque lascia a casa durante i lunghi trasferimenti di lavoro. Inizio così a sperimentare e cercare sempre più un’interpretazione estetica di quanto si presenti davanti l’obiettivo. M’invaghisco, poi lo odio, e infine me ne innamoro nuovamente. È una battaglia di pazienza contro se stessi in cui vince l’umiltà. Dopo dieci anni e migliaia di immagini, scatto ancora con la stessa macchina prediligendo ritratti paesaggistici e persone inserite in contesti naturali legandovi al contempo messaggi personali; surrogati della realtà che osservo e che vorrei trasmettere a chi si fermi a guardare.
Le foto esposte racchiudono un periodo di tre anni, frutto di escursioni con amici e parenti o la realizzazione di progetti impulsivi in solitaria. Ognuna di esse è testimone di un’attesa, in molte sussiste fatica fisica, in alcune il freddo e la solitudine furono collaboratrici preziose.